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Alienazione e utilizzazione del demanio storico-artistico
nel d.p.r. 283/2000: una prima lettura
(Lecce, 2 dicembre 2000)

 

I profili pubblicistici del d.p.r. 283/2000

di Giuseppe Verde e Simone Pajno [*]


Sommario: 1. Il d.p.r. 283/2000 nella prospettiva della semplificazione normativa. - 1.1. Il regolamento in materia di beni culturali nell'epoca della semplificazione normativa. - 1.2. Il d.p.r. 283/2000 nel contesto del "sistema delle fonti". - 1.3. Segue: il regolamento d.p.r. 283/2000 e le competenze regionali. - 2. L'assetto delle competenze. 2.1. Il riparto delle competenze e l'idea di "bene culturale". - 2.2. Le scelte del d.p.r. 283/2000. - 2.3. Il senso delle scelte sul riparto di competenze: i beni culturali nell'epoca della complessità. - 3. Aspetti salienti della disciplina: riflessioni a prima lettura. 3.1. L'ambito di riferimento della normativa regolamentare. - 3.2. Le res quarum commercium non est. - 3.3. Il procedimento di identificazione dei beni. La redazione degli elenchi. - 3.4. La (sub)categoria residuale. Il senso dell'art. 6, ultimo comma. - 3.5. Il regime concessorio-convenzionale e il regime autorizzatorio.



1. Il d.p.r. 283/2000 nella prospettiva della semplificazione normativa

Il d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283 (Regolamento recante disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico) suscita in chi vi si accosta stimoli molteplici, e diversi tra loro, e ciò in quanto riesce ad inserirsi al crocevia di numerose questioni che negli ultimi tempi appaiono tra le più importanti nell'ambito del diritto pubblico. Infatti, la disciplina regolamentare suggerisce un nuovo approccio ai beni immobili demaniali del patrimonio storico e artistico; si tratta quindi di una disciplina che nel futuro caratterizzerà il senso della fruizione di detti beni. Parimenti significativo è poi la sede normativa prescelta - regolamento dell'esecutivo - in tema di alienazione di beni particolarmente significativi sotto il punto di vista culturale. Il passaggio dalla sede legislativa alla sede regolamentare, unitamente alla attivazione controversa delle competenze regionali, è segno di un cambiamento istituzionale di un certo rilievo.

Il d.p.r. 283/2000 è un regolamento, ed è un regolamento di delegificazione: ecco che allora si manifestano le prime linee della riflessione dell'interprete: quella della semplificazione, innanzi tutto, nella sua duplice veste della semplificazione amministrativa e della semplificazione normativa.

Se infatti il regolamento in esame è dichiaratamente uno strumento per il perseguimento della prima, anche la seconda rappresenta una lente alla luce della quale compiere alcune valutazioni in materia. Secondo alcuni autori, infatti, la delegificazione rappresenta un elemento di complicazione normativa: e comunque la sua attuazione è un fattore che merita di essere studiato da chi volesse individuare i percorsi per contrastare quest'ultima.

Evocandosi il tema della delegificazione, peraltro, non possono non venire alla mente i dibattiti che ormai da un po' di tempo animano il proscenio scientifico in relazione alla compatibilità di questo fenomeno, soprattutto per le caratteristiche che ha assunto nella prassi, con le categorie tradizionali del sistema delle fonti: e a riguardo non tarda neanche ad affacciarsi il sospetto che in effetti la prospettiva della teoria delle fonti non veda che un aspetto della vicenda. Per uno sguardo più completo, che consenta di percepire in modo più adeguato i fenomeni, pare opportuno guardare oltre, e cogliere insieme anche l'aspetto istituzionale del problema. Di tutto ciò il regolamento del quale in questa sede ci si occupa sembra un esempio particolarmente significativo.

E' infatti sotto il profilo istituzionale che è possibile cogliere altri nodi problematici sottesi al regolamento in questione, che se certo non semplificano il quadro che si pone dinanzi l'interprete, permettono tuttavia di gettare nuova luce ai nodi che in prima battuta erano stati individuati.

Da questo punto di vista, appare significativo che scelte di notevole importanza quali quelle compiute dal regolamento in esame, siano state portate a termine mediante un atto governativo secondario: si tratta della materia della proprietà, tradizionalmente - e storicamente - primo regno della legge parlamentare. Il governo vi si stabilisce mostrando di voler assumere il ruolo di guida nella determinazione dell'indirizzo politico, confermando il suo ruolo di centro propulsore dei processi di produzione normativa.

Si tratta però di un governo che vuole anche agire, e conseguentemente conforma alle proprie esigenze - di snellezza ed efficienza - le strutture delle quali dispone: ed il regolamento in esame può essere senz'altro visto come il "correlato funzionale" della riforma dei ministeri, operata con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 [1].

E ancora l'aspetto istituzionale evoca la questione del ruolo delle regioni, e degli enti locali, e la connessa questione del riparto delle funzioni. Dalle scelte operate in questo settore, e da alcune riflessioni concernenti gli sviluppi istituzionali ultrastatuale, quali quelli connessi all'Unione europea, peraltro, potrebbe emergere una chiave di lettura del ruolo dello Stato in un campo delicato quale è quello dei beni culturali.

 

1.1. Il regolamento in materia di beni culturali nell'epoca della semplificazione normativa

Il regolamento di delegificazione qui in discussione offre l'occasione per richiamare brevemente alcuni dei percorsi istituzionali che hanno caratterizzato la produzione normativa nel corso della XIII legislatura.

Tra gli aspetti generali che hanno riguardato la produzione normativa nell'ultimo periodo vi è l'affermarsi dell'esigenza di migliorare la qualità della legislazione cercando, allo stesso tempo, di ridurre il numero delle leggi vigenti nel nostro ordinamento.

Diversi accorgimenti parlamentari e diverse tecniche normative dovrebbero farsi carico di perseguire l'obiettivo della semplificazione normativa. La prassi parlamentare relativa ai percorsi istituzionali delle leggi di semplificazione (legge 8 marzo 1999, n. 50 e legge 24 novembre 2000, n. 340) dimostra come il problema della complessità della legislazione rappresenti ormai una grande questione politico-istituzionale [2].

Uno sguardo sommario alle vicende che hanno riguardato la nostra forma di governo non può fare a meno di cogliere una disarticolazione nel funzionamento di quest'ultima ed una perdurante crisi del sistema politico. In questa situazione il governo ha assunto il ruolo di centro propulsore dei processi di produzione normativa in un contesto nel quale è difficilissimo governare le vicende che attengono alla produzione normativa. Sempre più spesso la dottrina parla di un vero e proprio disordine delle fonti determinato anche dal "travolgente" processo di superamento dei modelli ordinamentali preposti alla produzione delle fonti normative [3].

Rivolgendo l'attenzione alla genesi del regolamento in questione, merita innanzi tutto di essere messo in evidenza il legame con l'art. 32 della legge 23 dicembre 1998, n. 448.

Quest'ultimo - collocato nel Titolo II del Capo II della l. 448/1998 - deve infatti essere inserito, così come il Titolo che lo contiene ed il regolamento di delegificazione 283/2000, in un contesto di assestamenti economici e finanziari.

Prescindendo dalla semplice descrizione del procedimento formativo di quest'ultimo e dalle ragioni specifiche che possono aver concorso alla sua emanazione, non si può fare a meno di notare come il d.p.r. 283/2000 si inquadra nel contesto di fenomeni più ampi. Lo Stato, infatti, dopo aver sottoscritto un patto di stabilità europeo, volto a garantire il rispetto di alcuni parametri, riuscendo in tal modo a partecipare validamente al processo di unificazione europea ed alla creazione di una moneta unica, stringe un patto con gli enti regionali il cui obiettivo è quello di limitare la spesa regionale. E' in un contesto siffatto che si inserisce quell'art. 32 - dal quale si sono prese le mosse - che è la fonte legittimante il regolamento di delegificazione qui oggetto di studio.

 

1.2. Il d.p.r. 283/2000 nel contesto del "sistema delle fonti"

Qualche breve considerazione preliminare deve essere svolta utilizzando, quali lenti di osservazione, gli strumenti e le categorie della teoria delle fonti.

Da questo punto di vista, la prima questione da prendere in considerazione è la riconducibilità del regolamento in esame alla figura generale della delegificazione prevista dall'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400.

L'art. 32 già più volte citato richiama, in effetti, tale ultima norma: solo, come del resto sempre più spesso accade, la prassi si discosta dal modello, e l'osservatore può constatare quella "fuga dal regolamento" della quale sempre più spesso si fa menzione [4].

Anche il caso qui in esame, dunque, conferma l'andamento disordinato delle nostre fonti. Se lo schema-tipo di delegificazione è caratterizzato dalla presenza, nella legge di delegificazione, delle norme generali regolatrici della materia, e dalla contestuale indicazione delle disposizioni legislative abrogate, l'art. 32 disattende ancora una volta tale modello.

Ripercorrendo alcuni passaggi del dibattito dottrinale successivo all'approvazione della l. 400/1988, è possibile notare come studiosi pur divisi tra loro dalle rispettive ricostruzioni del sistema delle fonti e dalle rispettive opinioni sulla potestà normativa dell'esecutivo, concordavano su un punto che sembrò allora di notevole importanza [5]: questo articolo 17, secondo comma, apparve rispettoso di alcuni principi, che potrebbero essere definiti crisafulliani, in tema di fonti. Vi era un rispetto della legalità in termini sostanziali, e ciò perché la legge delegificante deve prevedere le norme fondamentali regolatrici della materia: e non sono certo mancati in dottrina, sia subito dopo l'approvazione della l. 400/1988, che nel periodo successivo, autori che hanno messo in luce la differenza di non poco momento che - almeno teoricamente - divideva tali "norme fondamentali regolatrici" dai "principi e criteri direttivi" che invece caratterizzano l'altro tipo di "delega normativa" al governo, ossia quella prevista dall'art. 76 Cost.

In questo quadro l'effetto abrogativo della legge posto in essere dal meccanismo di delegificazione non sconvolge più di tanto l'impostazione tradizionale in tema di fonti: il suddetto effetto è infatti imputabile, secondo l'impostazione accolta anche dall'art. 17, alla legge di delegificazione e non al regolamento [6].

Gli autori che si sono occupati, ad esempio, della legge di semplificazione per il 1998, la l. 50/1999, o più in generale di tutti gli interventi di delegificazione portati avanti a partire dalla legge 24 dicembre 1993, n. 537, hanno notato che gli aspetti dell'art. 17 più sopra evidenziati sono stati completamente disattesi [7]. Non ci sono più norme regolatrici della materia sostituite da principi e criteri che spesso individuano non limiti al governo ma finalità che il regolamento deve raggiungere e ciò comporta notevoli difficoltà per chi si volesse ostinare a ricondurre l'effetto dell'abrogazione alla legge che attiva la potestà regolamentare, sembrando piuttosto da imputare direttamente all'atto di provenienza governativa. La vicenda nel cui ambito tutto ciò appare con maggiore evidenza è proprio quello della legge di semplificazione più sopra citata, ove vengono individuate le materie nelle quali il regolamento è abilitato ad operare mediante il riferimento ai procedimenti amministrativi: solo che dopo sarà il regolamento stesso ad individuare le disposizioni effettivamente abrogate: e anche il d.p.r. 283/2000 non si discosta in effetti da questa linea.

In questo quadro, come si diceva, si fa strada con insistenza sempre maggiore l'idea che in effetti la fictio dell'imputazione alla legge dell'effetto abrogativo non sia altro, appunto, che una fictio, e che alla prova dei fatti il regolamento di delegificazione individua e abroga le disposizioni legislative. E ancora, in questo contesto vanno letti gli sforzi di quella dottrina che cerca di distribuire tale effetto abrogativo tra legge e regolamento, proponendo quasi una "procedimentalizzazione" dell'abrogazione [8]: si tratta in effetti di sforzi che, per quanto interessanti, confermano le difficoltà degli studiosi ad inquadrare il fenomeno che si trovano dinanzi.

L'art. 32 dalla cui analisi si sono prese le mosse conferma tutto questo, ponendosi sulla stessa linea degli interventi prima citati. Se si passa, poi, a studiare come opera nel concreto il regolamento in questione, la vicenda si complica ancor di più: se in altre ipotesi di delegificazione, in assenza di espresse previsioni nella legge abilitante l'intervento governativo, è lo stesso regolamento ad individuare le norme legislative abrogate nel caso oggi oggetto di studio non si può fare a meno di provare un certo affanno a rintracciare le disposizioni di legge effettivamente abrogate.

A riguardo, la materia pare debba essere rintracciata tra le maglie degli artt. 822 e 823 del codice civile: il primo di essi infatti detta disposizioni volte alla individuazione dei beni facenti parte del demanio pubblico, tra i quali devono essere ricompresi "gli immobili riconosciuti d'interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia"; il secondo, invece, prevede che gli immobili individuati dal precedente articolo "sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritto a favore di terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano".

Da una analisi delle norme regolamentari [9] pare possibile ritenere che le disposizioni codicistiche sopra richiamate non vengano propriamente abrogate, ma piuttosto integrate, determinandosi in materia una interazione delle disposizioni codicistiche con quelle regolamentari, dal momento che la possibilità di alienazione menzionata nelle norme sopra citate oggi è attivata mediante questa potestà regolamentare. Anche in relazione alla individuazione dei beni, del resto, può notarsi una interazione tra norme primarie e subprimarie: a riguardo non si può che rinviare all'art. 2 del d.p.r. 283/2000, evidenziando comunque che su questi aspetti ci si soffermerà con maggiore attenzione nell'ultima parte del lavoro [10].

 

1.3. Segue: il regolamento d.p.r. 283/2000 e le competenze regionali

Un altro aspetto di particolare interesse attiene all'interrelazione che si determina con le fonti regionali.

Il d.p.r. 283/2000, ove regola le funzioni del soprintendente, all'art. 7 opera una riserva in considerazione della potestà legislativa delle regioni a statuto speciale; a riguardo vengono in considerazione la Valle d'Aosta, la Sicilia e il Trentino Alto Adige, alle quali alcune disposizioni statutarie attribuiscono potestà legislativa primaria o esclusiva, a secondo di come la si vuol definire, in materia di beni culturali.

Un primo problema che si pone è dunque quello di capire come queste fonti di cui ci si occupa interagiscono con il livello regionale. A questo riguardo, l'esperienza siciliana sembra essere particolarmente significativa di come il riconoscimento costituzionale di una particolare forma di autonomia si traduca nella realtà in un argine all'innovazione istituzionale. Tutte le volte nelle quali la legislazione statale disciplina materie che lo statuto regionale rimette alla potestà legislativa esclusiva o primaria della regione, indipendentemente dal fatto che le disposizioni di legge statale possano contenere norme di grande riforma economico sociale, si rende necessario, al fine di poter applicare anche nel territorio regionale le riforme statali, una cosiddetta "legge di recepimento" [11].

Queste ultime considerazioni, che potrebbero sembrare allontanarsi dal tema, appaiono invece del tutto pertinenti ove si consideri che il meccanismo sopra descritto rischia di rendere improduttivi gli effetti delle innovazioni introdotte in materia di beni culturali proprio in quelle parti del territorio nazionale in cui si concentra un elevatissimo numero di beni e un patrimonio culturale di particolare bellezza e rilevanza.

Peraltro, proprio in relazione all'esercizio della potestà regolamentare non bisogna dimenticare che tutte le volte in cui si viene a determinare un concorso tra potestà regolamentare del governo e potestà legislativa regionale la Corte costituzionale ha evidenziato che queste due fonti non sono destinate ad interagire. Il regolamento di delegificazione, dunque, non sarebbe abilitato a disciplinare materie di competenza regionale [12].

In questo quadro è intervenuta l'ultima legge di semplificazione, che, dopo un sofferto passaggio in conferenza unificata - che consta di ben quattro sedute - e con un parere negativo dei Presidenti delle regioni, è riuscita a partorire una disposizione di modifica dell'art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 secondo la quale non è più la legge annuale di semplificazione ad individuare "i procedimenti relativi a funzioni e servizi che, per le loro caratteristiche e per la loro pertinenza alle comunità territoriali, sono attribuiti alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali": sarà infatti lo stesso governo, in sede di attuazione della delegificazione, a procedere alla suddetta identificazione [13].

Questa scelta, sovente accusata di eccessivo centralismo [14], comporta dunque che i regolamenti di delegificazione vanno ad abrogare le disposizioni di legge regionale che si ponessero in contrasto con la normativa dell'esecutivo. L'autonomia regionale consente alle regioni di potere legiferare sulle materie oggetto del regolamento di delegificazione; nell'immediato comunque il regolamento di delegificazione pretende di interferire con la legislazione regionale sostituendosi a questa.

Il problema, tuttavia, è innanzi tutto quello di capire se queste leggi di semplificazione siano applicabili alla materia di cui ci occupiamo.

Esiste, quindi, un problema di definizione dell'assetto delle fonti, che può senza esitazione essere definito delicato. La sensibilità istituzionale nei confronti della semplificazione normativa è destinata a realizzarsi in contesti ordinamentali caratterizzati da fenomeni di ineliminabile complessità. Infatti, fra le ragioni che attribuiscono un carattere strutturale alla "complessità normativa nelle società avanzate", la Conferenza dei Presidenti dei parlamenti europei tenutasi a Lisbona il 22 maggio 1999 [15], vi è quella del proliferare dei centri preposti alla produzione normativa. Il rilievo della potestà normativa regionale e degli enti locali deve integrarsi con processi normativi nei quali lo Stato mantiene un suo ruolo importante, anche se fortemente condizionato dal diritto comunitario.

Concludendo le riflessioni di carattere generale, si può evidenziare quello che in realtà dovrebbe già essere emerso nel corso di quanto già detto: se si volessero valutare nel loro complesso gli atti normativi che incidono nella materia in questione ci si troverebbe di fronte al concorrere del codice civile, con l'art. 822 e l'art. 823, del Testo Unico sui beni culturali [16], e del d.p.r. in questa sede esaminato, nonché del d.lg. 300/1999, che quando regola i soprintendenti regionali determina il "correlato istituzionale" dei temi qui oggetto di studio specifico.

Ebbene, in tutto questo contesto normativo, che conferma il senso della complessità, si evidenzia come suo aspetto saliente quello della capacità, chiaramente percepibile in questo regolamento, di trovare un corretto punto d'incontro tra disposizioni di tipo civilistico, che richiamano la dimensione contrattuale e la teoria dell'obbligazione, e disciplina pubblicistica che, attraverso il regime concessorio-convenzionale (per i beni inalienabili) ed il regime autorizzatorio (per quelli alienabili), incide sullo svolgimento dell'autonomia contrattuale, orientandola verso la tutela di interessi diversi da quelli della causa tipica del contratto [17]. In tal modo viene confermata quella chiave di lettura che sottolinea il fatto che il bene culturale, nella nuova prospettiva adottata, non viene più in considerazione solo come bene fisico, ma piuttosto nella sua prospettiva complessiva: l'attività richiesta, conseguentemente, non si limita più alla semplice tutela fisica, ma necessita la sua valorizzazione culturale, nell'attuazione della quale non sarà possibile prescindere dalla considerazione dei contesti in cui il bene si trova inserito.

 

2. L'assetto delle competenze

2.1. Il riparto di competenze e l'idea di "bene culturale"

Nella seconda parte del discorso, sarà opportuno abbozzare qualche riflessione stimolata - a prima lettura - dalle modalità di intervento scelte dal d.p.r. 283/2000, in particolare in relazione all'assetto delle competenze e al riparto delle funzioni tra Stato e regioni.

Come è noto, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 ha realizzato i conferimenti di funzioni alle regioni che erano stati previsti dalle disposizioni di delega della l. 59/1997, c.d. Bassanini 1 [18].

La questione della dislocazione delle competenze, peraltro, è strettamente legata - come si cercherà tra un attimo di mostrare - al modo di intendere il bene culturale stesso e la sua valorizzazione: pare dunque necessario soffermarsi un attimo su questi temi.

La legge 1 giugno 1939, n. 1089, che disciplinava la materia oggi in esame, era caratterizzata, come è noto, da una concezione dell'intervento pubblico in relazione al bene culturale che denotava come esso fosse inteso, soprattutto, come bene nella sua materialità fisica, il quale doveva sì essere preservato dalla corruzione del tempo, non necessitando invece la cura di un legame con la realtà che lo circonda. In conseguenza di ciò la disciplina di tutela era fondata soprattutto su una serie di disposizioni vincolistiche, che inibivano, dunque, interventi corruttivi, senza spingere in alcun modo ad una valorizzazione positiva.

Tale prospettiva è stata avversata con vigore, come è noto, da quella dottrina secondo la quale il "bene culturale" non sarebbe tanto la cosa oggetto di diritti, quanto il "valore culturale" connesso a quest'ultima [19]: ciò che comporta l'impossibilità di separare - in vista della sua tutela quale valore culturale, e dunque della sua complessiva valorizzazione - il bene culturale dal contesto in cui è calato. Secondo tale punto di vista, dunque, la tutela diviene valorizzazione, ed implica, dunque, anche una gestione, oltre alla mera "difesa" dagli agenti esterni.

Sembra possibile affermare, senza timore di incorrere in errore, che la disciplina posta dagli artt. 148 e ss. del d.lg. 112/1998 si pone con decisione in quest'ultima prospettiva: basti pensare, a riguardo, alla definizione puntuale che l'art. 148 fa dei termini "tutela", "gestione", "valorizzazione", "attività culturale" e "gestione".

Tornando alla questione dalla quale si erano prese le mosse, cioè quella concernente l'assetto di competenze tra Stato e regioni, merita di essere segnalata la circostanza che, usualmente, ad un diverso modo di intendere il concetto di bene culturale si fa corrispondere un diverso modo di pensare la allocazione delle competenze tra i vari livelli territoriali.

Sul punto, si sono affrontate due diverse scuole di pensiero. La prima, tendenzialmente centralistica, faceva leva sulla "equiparazione tra governo locale dei beni culturali e permeabilità agli interessi particolaristici cui si contrappone l'autonomia dell'amministrazione centrale" [20]. La seconda, più incline al decentramento, si fondava sull'argomento dell'inserimento del bene culturale nei contesti locali: inserimento necessario al fine di sfruttare adeguatamente il bene stesso. E' forse possibile percepire in questi due diversi punti di vista le influenze delle differenti opzioni che si sono affrontate in materia, e che si è avuto modo di richiamare, per cenni, più in alto: l'approccio di mera tutela-conservazione (che caratterizzava la normativa pregressa) e l'approccio della valorizzazione del "valore culturale" del bene (che invece dovrebbe caratterizzare le norme più recenti).

Secondo il primo punto di vista, infatti, "l'identificazione dell'amministrazione statale dei beni culturali con un corpo professionale (i soprintendenti) che, per l'elevata formazione tecnico-scientifica e per l'autonomia garantita istituzionalmente, dovrebbe poter resistere alle pressioni degli interessi particolaristici" [21]; in base al secondo approccio, invece, beni culturali non possono essere visti in modo "atomistico", come tante monadi, "costituendo piuttosto una trama o un ordito in cui il singolo oggetto assume senso dall'insieme delle relazioni in cui è inserito" [22].

Secondo l'approccio "contestualista", dunque, non è possibile valorizzare il bene culturale prescindendo, appunto, dai "contesti locali": tale approccio spinge, conseguentemente, a sviluppare le attribuzioni delle autonomie.

 

2.2. Le scelte del d.p.r. 283/2000

Se questo dunque è il contesto di principi e criteri, in tema di riparto delle competenze, nel quale si inserisce il d.p.r. 283/2000, è necessario capire come in effetti quest'ultimo interpreta tali principi. E a riguardo non si può non prendere in considerazione l'accusa, mossa al regolamento in sede di Conferenza unificata, di un eccessivo centralismo: ciò che sembrerebbe indicativo del discostarsi del regolamento dalla prospettiva "contestualistica" indicata dal d.lg. 112/1998 e dal T.U. in materia.

Tale prospettiva è certo percepibile nel regolamento in commento, che è volto senz'altro a garantire il bene nella sua fisicità, ma che predispone una normativa tale da imprimere alle vicende della circolazione e della utilizzazione del bene culturale un legame particolarmente evidente con la funzione sociale di quest'ultimo.

Quanto al primo aspetto, è facile rilevare la sostanziale analogia dell'art. 1 del d.p.r. 283/2000 con l'art. 823 cod. civ.: l'imposizione di una disciplina vincolistica, e comunque caratterizzata nel senso di un regime di circolazione controllata, è presupposto essenziale per lo svolgimento delle funzioni di tutela da parte delle autorità amministrative.

Quanto al secondo aspetto, possono essere citate, a titolo di esempio, alcune norme: l'art. 7, innanzi tutto, secondo il quale "La richiesta di autorizzazione ad alienare (…) contiene, oltre ai dati identificativi dell'immobile, un programma consistente nella descrizione degli obiettivi di tutela e valorizzazione conseguibili con l'alienazione"; l'art. 10, in relazione al "contenuto" dell'autorizzazione suddetta; ancora, l'art. 11, che disciplina la risoluzione del contratto di alienazione conseguente all'inadempimento degli obblighi che gravano sull'acquirente in relazione alle modalità di utilizzazione del bene e che sono determinate dal precedente art. 10.

Nell'assetto attuale sono percepibili elementi di continuità con il passato, individuabili ad esempio nel monopolio statale della funzione di tutela, accanto ad elementi di innovazione, che, invece, riguardano il regime di collaborazione tra i diversi livelli di governo per quel che concerne l'esercizio delle funzioni differenti dalla "tutela".

Tale impostazione, come è stato evidenziato, "attribuisce il massimo risalto all'insegnamento della giurisprudenza costituzionale che nella materia dei beni culturali imprime particolare risalto al principio della leale collaborazione" [23].

Certo, le strutture periferiche dell'amministrazione centrale rivestono un ruolo di primo piano anche nell'ambito della gestione ed alienazione dei beni di proprietà di regioni ed enti locali: basti pensare, a riguardo, al regime di redazione degli elenchi, o anche alla semplice circostanza che il provvedimento di autorizzazione alla alienazione, alla dazione in concessione o alla stipula della convenzione proviene sempre dal soprintendete regionale. Su questi temi - del resto di primaria importanza - ci si soffermerà comunque più avanti.

Del tutto centrale, a riguardo appare dunque la posizione dei soprintendenti regionali, istituiti dal d.lg. 300/1999 [24]: a costoro, cui già la normativa di riforma dei ministeri attribuisce importanti funzioni, prima di competenza del ministro, quali il vincolo di cosa di interesse storico e artistico e la notifica delle collezioni di eccezionale interesse storico e artistico, gli artt. 3 e ss. del regolamento in esame assegnano un ruolo determinante anche in quella valorizzazione che dovrebbe vedere protagonisti gli attori istituzionali locali.

Ma questi ultimi, a conti fatti, che ruolo avranno nelle dinamiche di applicazione del d.p.r. 283/2000?

Si riuscirà, in effetti, a realizzare quella fruttuosa collaborazione che si auspicava più sopra? Fornisce il regolamento gli strumenti affinché ciò possa avvenire? L'iniziativa dell'alienazione, della dazione in concessione o dell'utilizzazione mediante convenzione è imputata - come è naturale che sia - all'ente proprietario: e al medesimo si fa carico di predisporre quello che potrebbe essere qualificato un "programma operativo" per l'utilizzazione del bene. Tutto ciò probabilmente consente di affermare che i margini per l'implementazione della "prospettiva contestualista" ci sono, anche se a questo fine decisiva sarà - è lecito pensare - la capacità organizzativa e progettuale dei singoli enti proprietari ed i rapporti che questi ultimi sapranno instaurare con l'amministrazione centrale.

 

2.3. Il senso delle scelte sul riparto di competenze: i beni culturali nell'epoca della complessità

Come si diceva, le scelte compiute dal presente regolamento sono state giudicate eccessivamente centralistiche. Tali scelte in effetti vanno però valutate nel complesso delle relazioni istituzionali del momento presente, ciò che spinge a chiedersi: perché, in presenza di una esplicita indicazione nel senso della sussidiarietà, il regolamento assegna ad organi periferici dell'amministrazione statale compiti tanto importanti? Il che, peraltro, corrisponde a porsi la seguente domanda: perché si è ritenuto che le funzioni assegnate al soprintendente regionale non potessero essere esercitate con pari utilità [25] da strutture amministrative delle regioni o degli enti locali? Qual è dunque la specifica ragione che spinge il governo (sia in sede di decretazione legislativa, che in sede di regolamento di delegificazione) ad attribuire determinate funzioni ('tutela') alle strutture statali, accanto ad altre che vedono, invece, l'intervento delle strutture degli territoriali minori ('valorizzazione') [26]?

E' forse possibile tentare un abbozzo di risposta a tali quesiti facendo riferimento ai profondi mutamenti che ormai da un po' di tempo scuotono l'assetto istituzionale tradizionale dello Stato moderno e il connesso apparato concettuale, cui ormai avevamo fatto l'abitudine.

Da questo punto di vista, possono essere svolti due ordini di considerazioni.

Il primo attiene a quelle che sono le trasformazioni che lo Stato, come ente, e come categoria generale del diritto pubblico, ha vissuto. Senza volersi qui soffermare su temi che certo meriterebbero ben altra attenzione, è possibile almeno notare come le trasformazioni indotte dal processo di unificazione europea hanno, come dire, quasi dissolto le categorie tradizionali - territorio, sovranità, governo - con le quali ancora adesso ci confrontiamo.

Per quanto riguarda il territorio, basti pensare alla libera circolazione di beni, persone e capitali nell'ambito dell'Unione europea; la sovranità, a sua volta, subisce ed ha subito compressioni sempre maggiori determinati dall'influenza che il diritto comunitario ha in riferimento al nostro ordinamento. Ancora, il potere di batter moneta, manifestazione tra le più tipiche della statualità, è ormai allocato a livello sovranazionale. Ove poi si prenda in considerazione l'indirizzo politico e l'attività del governo, non si può fare a meno di notare come le scelte di politica economica-finanziaria o, in generale, le scelte apicali del nostro governo siano state spesso dettate dal rispetto di parametri stabiliti fuori dal circuito parlamento-governo. E' come se al nostro ordinamento si imponesse un movimento, lento ma costante, di uniformizzazione agli altri ordinamenti delle democrazie occidentali, cui sono imposte alcune scelte indipendentemente da una piena consapevolezza sulle scelte stesse.

Di fronte a tutto questo, in un contesto in cui lo Stato si apre, in un contesto nel quale la società fa i conti con la presenza di etnie o credi religiosi diversi, il bene culturale è destinato a rappresentare, probabilmente, il vero senso dell'identità nazionale. Ed è forse proprio in relazione alle vicende cui si appena fatto cenno che deve essere percepito il senso delle scelte operate prima dalla l. 59/1997 e poi dai provvedimenti più sopra richiamati, in modo da garantire, si potrebbe forse dire, il significato culturale degli oggetti di cui ci si occupa.

E ancora - e qui si può cogliere un secondo aspetto della questione - mediante un riparto delle competenze quale quello descritto si tende ad evitare che la valorizzazione culturale del localismo possa in qualche modo essere utilizzata politicamente, anche - ad esempio - come forma di disgregazione dell'unità nazionale. Si può pensare, a titolo esemplificativo, ad una forza politica che volesse sottolineare l'importanza culturale dei sicilioti rispetto all'evoluzione della cultura e dell'arte nella Magna Grecia, e che volesse, dunque, riaffermare un'etnia in contrasto con il processo di unità statale.

Queste considerazioni possono forse indurre ad una valutazione positiva delle norme che qui si commentano: ed è forse possibile scorgere in esse un esempio di applicazione della sussidiarietà, che non significa necessariamente valorizzazione della competenza che è più vicina all'interesse, bensì anche - e soprattutto - ottimizzazione della decisione, tramite l'individuazione del livello ad essa, di volta in volta, più adatto.

 

3. Aspetti salienti della disciplina: riflessioni a prima lettura

3.1. L'ambito di riferimento della normativa regolamentare

L'art. 1 del regolamento identifica il proprio ambito di applicazione mediante il riferimento all'art. 822 cod. civ. (demanio accidentale). Si interviene dunque sul regime giuridico di beni demaniali, che a mente dell'art. 823 cod. civ. "sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritto a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano".

Si tratta, dunque, di beni soggetti ad un regime giuridico particolare, che potrebbe essere definito a "circolazione controllata". Come si vedrà più avanti, peraltro, tale categoria non è conformata in modo omogeneo al proprio interno: piuttosto, dal regolamento in questione sono individuate due diverse categorie, quella dei "beni inalienabili" e quella dei beni alienabili solo in presenza di particolari condizioni e mediante una specifica procedura autorizzatoria. Le norme che introducono e regolano la distinzione tra tali categorie pongono alcuni problemi concernenti il loro aspetto relazionale: problemi, in altre parole, riguardanti l'identificazione dei confini dell'una rispetto all'altra. Anche in relazione a questi temi, si rinvia alle considerazioni reperibili infra.

 

3.2. Le res quarum commercium non est

L'art. 2 individua una categoria specifica all'interno di quella più generale: si tratta di quei beni che non possono essere - in nessun caso - alienati. Si tratta dunque di vere e proprie res extra commercium, identificate mediante criteri legati ad un provvedimento di sanzione formale.

Il punto a), infatti fa riferimento a "beni riconosciuti, con provvedimento avente forza di legge, monumenti nazionali", mentre il punto b) rinvia alla qualificazione di "beni di interesse particolarmente importante" compiuta ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera b) del Testo Unico in materia di beni culturali e ambientali.

E' forse il caso di sottolineare come in effetti la sanzione formale, in questo caso, non sia individuata mediante il riferimento alla norma da ultimo citata (ai sensi della quale "Sono beni culturali disciplinati a norma di questo Titolo: (…) b) le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante"). Per individuare le modalità di identificazione di tale categoria di beni, infatti, è necessario fare riferimento al comma 2 dell'art. 6 del Testo Unico: è infatti solo in quella sede che si assegna al ministro il compito di dichiarare "l'interesse particolarmente importante delle cose indicate all'art. 2, comma 1, lettera b)". Un esplicito riferimento a tale norma, nel testo dell'art. 2 del regolamento di delegificazione, sarebbe dunque stato opportuno.

Il punto d), ancora, si riferisce a "beni che documentano l'identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive ed ecclesiastiche, riconosciuti con decreto del ministro per i Beni e le Attività culturali". Solo il punto c) dell'art. 2 fa menzione dei "beni di interesse archeologico", senza indicare alcun provvedimento che sancisca una tale condizione, anche se, a riguardo, non può non venire alla mente la disciplina dettata dagli artt. 6 e ss. del T.U., concernente la "dichiarazione", da parte del ministero, della qualifica di "cosa immobile che presenta interesse archeologico".

 

3.3. Il procedimento di identificazione dei beni. La redazione degli elenchi

Importanza centrale - addirittura sistemica, è forse possibile dire - riveste, nel regime giuridico dei "beni immobili di interesse storico e artistico" a regime di circolazione controllata, la Sezione I del Capo II del d.p.r. 382/2000.

Si tratta degli artt. da 3 a 6, concernenti la redazione e l'aggiornamento degli elenchi dei beni di proprietà dei regioni, province e comuni: elenchi questi essenziali al fine della alienazione dei beni stessi.

L'art. 3 regola la presentazione degli elenchi, da parte delle regioni e degli enti locali, al soprintendente regionale per i Beni e le Attività culturali, che come si vedrà gioca in questa fase un ruolo di assoluto rilievo. In particolare, entro due anni dall'entrata in vigore del regolamento qui in esame, dovrà essere presentato "l'aggiornamento dell'elenco previsto dall'art. 5 del Testo Unico, relativamente agli immobili di loro proprietà indicati nell'art. 2, comma 1, lettera a), dello stesso Testo Unico", nonché "l'elenco degli immobili di loro proprietà realizzati almeno quarantacinque anni prima" dell'entrata in vigore del d.p.r. 382/2000.

Il ruolo di regioni ed enti locali si ferma qui. Nella fase successiva il dominus sarà il soprintendente regionale, e dunque l'amministrazione statale. Sarà il soprintendente, infatti, a decidere quali beni - inseriti dall'ente proprietario nell'elenco - non rivestono interesse artistico e storico (art. 4, comma 1, lett. a); sarà il soprintendente, ancora, ad integrare l'elenco dei beni aventi interesse storico e artistico, sulla base del secondo elenco presentato dagli enti proprietari. Regioni ed enti locali non potranno intervenire, se non su richiesta dello stesso soprintendente (art. 4, comma 2) o per presentare controdeduzioni prima che questi adotti i provvedimenti di cui all'art. 4, comma 1.

Dinanzi ad un siffatto assetto di competenze, non possono non venire alla mente le considerazioni svolte più sopra, in relazione al ruolo che le istituzioni centrali sono chiamate a svolgere, in relazione alla tutela ed alla valorizzazione dei beni culturali, pur nell'ambito di un approccio "contestualista".

Certo, si tratta di norme che probabilmente verranno accusate di essere eccessivamente centraliste, svilendo in tal modo il ruolo delle regioni e degli enti locali. E tali censure potrebbero essere considerate almeno in parte fondate, ove si consideri che forse potevano essere ricercati meccanismi di collaborazione più intensa tra strutture periferiche dell'amministrazione centrale ed amministrazioni locali. Quella che probabilmente è la ratio di tale normativa, comunque, la si è già indicata, ed è la ricerca di una unità nazionale sul piano culturale, tesa ad evitare che la frammentazione localistica delle realtà culturali possa essere indebitamente utilizzata come fattore di disgregazione, anche - in ipotesi - a livello politico.

 

3.4. La (sub)categoria residuale. Il senso dell'art. 6, ultimo comma

Ai sensi dell'art. 6, ultimo comma, del d.p.r. 283/2000 "Gli immobili del demanio artistico e storico delle regioni, delle province e dei comuni non inseriti negli elenchi di cui agli art. 3, comma 1, non sono alienabili".

Tale norma potrebbe porre qualche problema all'interprete, dal momento che sembra configurare, all'interno della categoria generale indicata dall'art. 1, la categoria delle res extra commercium come categoria residuale. In altri termini: tutti i beni rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 1 sarebbero inalienabili, salvo quelli inseriti nell'elenco.

Ad una lettura appena un po' più approfondita, tuttavia, si ricava un'impressione del tutto diversa: basta prendere in considerazione il già citato art. 2 - in forza del quale sono inalienabili solo gli immobili appartenenti a categorie ben determinate, frutto di identificazione mediante atti espliciti ad hoc - nonché il comma 1 dello stesso art. 6 [27], per ribaltare del tutto il risultato. La (sub)categoria residuale è quella dei beni che sono alienabili, sia pure a particolari condizioni, mentre ad essere identificati tramite indicazioni specifiche sono i beni inalienabili.

Qual è, allora, il senso della disposizione richiamata all'inizio del paragrafo?

Ad avviso di chi scrive essa potrebbe essere messa in connessione con il peso che, secondo quanto si è avuto modo di mettere in luce più sopra, caratterizza l'intervento rispettivamente del soprintendente e delle regioni ed enti locali.

Inserito in tale contesto l'art. 6, ultimo comma, si presenta non già come una norma sul regime giuridico dei beni (nonostante il riferimento alla inalienabilità, che inevitabilmente comporta riflessi anche su questo piano), bensì come una norma latu sensu "sanzionatoria", volta a spingere gli enti proprietari a redigere gli elenchi, e a farlo in modo completo, esaustivo. Altrimenti, ad essi sarà preclusa la via della alienazione dei propri beni. Ad ulteriore conferma di ciò, peraltro, può essere menzionata la circostanza dell'assenza, del testo del citato art. 6, ultimo comma, di ogni riferimento ai beni di proprietà dello Stato: trattandosi di una "sanzione" - sia pure incidente sul regime di circolazione dei beni - relativa alla "mancata collaborazione" con l'amministrazione statale, essa non può che minacciare regioni, province e comuni: non certo lo Stato stesso.

 

3.5. Il regime concessorio-convenzionale e il regime autorizzatorio

La suddivisione dei beni indicati dall'art. 1 in due categorie risponde a finalità precise.

Le res extra commercium non possono essere alienate: esse possono soltanto "essere oggetto di conferimento in concessione o di utilizzazione mediante convenzione", nei limiti e con le modalità previste dallo stesso d.p.r. 283/2000.

Viceversa, per i beni non aventi le caratteristiche indicate al comma 1 dell'art. 2, è ammessa l'alienazione: ciò, tuttavia, soltanto mediante l'applicazione di uno speciale regime autorizzatorio.

La disciplina concernente il regime concessorio e quella relativa al regime autorizzatorio sono caratterizzate da una forte omogeneità di fondo, pur nella diversità degli strumenti giuridici cui fanno riferimento. In essa emerge con una certa chiarezza la prospettiva "contestualista" alla quale si accennava più sopra, volta a valorizzare il bene culturale, e non solo a conservarlo nella sua materialità. E a riguardo il ruolo degli enti proprietari cresce notevolmente, rispetto all'assetto di competenze che caratterizza invece il momento della individuazione dei beni.

Certo, è sempre il soprintendente regionale che "delibera sulla richiesta di autorizzazione" (art. 9) [28]; tuttavia gli enti proprietari sono chiamati ad identificare (art. 7) oltre che gli immobili da alienare, un programma di tutela e valorizzazione del bene che sia compatibile con l'alienazione. E tra gli aspetti che tale programma deve curare spiccano quelli concernenti la destinazione d'uso e le "modalità di pubblica fruizione del bene, anche in rapporto con la situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso".

Gli enti proprietari, peraltro, sembrano garantiti nei loro rapporti anche dalla norma (art. 10, comma 1) [29] che prevede i casi in presenza dei quali l'autorizzazione non può essere rilasciata. Tale disposizione può infatti essere letta anche nel senso che - dal momento che sono i fini in essa indicati a porsi come obiettivo del regime autorizzatorio gestito dal soprintendente - quest'ultimo non possa negare l'autorizzazione richiesta ove il programma presentato dall'ente richiedente rispetti i limiti da essa posti [30]. Certo, si tratta di una tra le possibili interpretazioni della norma in questione: a chi scrive pare tuttavia che in tal modo si rispetterebbero quelle linee guida che si è creduto di rintracciare nell'evoluzione dell'ordinamento cui si faceva più sopra riferimento.

Tali considerazioni sono rafforzate, inoltre, dal regime previsto in relazione al contenuto prescrittivo dell'autorizzazione, e dalla sanzione - particolarmente rigorosa - prevista in caso di inadempimento di tali prescrizioni.

Ai sensi dell'art. 10, comma 3, infatti, l'autorizzazione prescrive: "a) le misure di tutela del bene e, in particolare: 1) le misure di conservazione; 2) l'indicazione degli usi incompatibili con il carattere artistico e storico del bene o pregiudizievoli alla sua integrità; 3) le condizioni di fruizione pubblica, tenuto conto della situazione conseguente alle precedenti destinazioni d'uso del bene; b) la previsione, nel contratto di alienazione, della clausola risolutiva espressa di cui all'art. 11".

L'articolo successivo, d'altra parte, predispone, nel caso di inadempimento di tali obblighi, la possibilità per l'amministrazione di avvalersi dello strumento della risoluzione del contratto, nonché della clausola penale di cui all'art. 1382 cod. civ. [31].

In presenza di strumenti dotati di una simile efficacia pare dunque lecito condividere l'interpretazione che più sopra si è suggerita dell'art. 10, comma 1, dal momento che comunque la "funzione pubblica" del bene culturale sembra essere adeguatamente tutelata.



Note

[*] Il presente lavoro è frutto della elaborazione comune dei due autori; pur tuttavia i punti 1.1.; 1.2.; 1.3. sono di Giuseppe Verde, i rimanenti sono di Simone Pajno.

[1] Ma, in materia di beni culturali, si veda anche il precedente decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368.

[2] V. N. Lupo, La prima legge annuale di semplificazione. Commento alla legge 50/1999, Milano, 2000.

[3] V. il contributo di U. De Siervo (Un travolgente processo di trasformazione del sistema delle fonti a livello nazionale) che precede e introduce gli studi pubblicati nell'Osservatorio sulle fonti 1998, curato dello stesso autore, Torino, 1998, XIII ss.; R. Tosi, Semplificazione amministrativa e complicazione normativa, in Le Regioni, 1998, 1397 ss., spec., 1400; P. Ciarlo, Il parlamento e le fonti normative, in La riforma costituzionale, Padova, 1999, 257 ss., spec., 275.

[4] Cfr. E. Malfatti, Rapporti tra deleghe legislative e delegificazioni, cit.; N. Lupo, La prima legge annuale di semplificazione. Commento alla legge 50/1999, Milano, 2000, 53 ss.

[5] Si fa riferimento, in particolare, ai contributi di Carlassare e Nicheli, apparsi su Quad. cost. 1990.

[6] Per una ricostruzione delle teorie esposte in dottrina sul punto, nonché per una proposta innovativa, che punta a "dividere" l'effetto abrogativo tra legge e regolamento, cfr. A. Ruggeri, "Fuidità" dei rapporti tra le fonti e duttilità degli schemi d'inquadramento sistematico (a proposito della delegificazione) (intervento al seminario su I rapporti tra parlamento e governo attraverso le fonti del diritto. La prospettiva della giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Cocozza e S. Staiano, Napoli 12 - 13 maggio 2000), reperibile in Dir. pubbl., 2000, 351 e ss., nonché in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, IV, Studi degli anni 1999/2000, 351 e ss.; Id., La delegificazione (relazione di sintesi), relativa al sopra citato seminario di studi, apparsa in Itinerari, cit., 381 e ss.; Cuniberti, La delegificazione, cit.

[7] Cfr. ad esempio N. Lupo, La legge di semplificazione, cit., 55.

[8] A. Ruggeri, "Fluidità" dei rapporti, cit., 368 e ss.

[9] E proprio questa necessità, la necessità cioè di analizzare il contenuto delle norme di rango subprimario, per capire quali sono le norme primarie che ad esse cedono, è sintomo palese di quanto si diceva più in alto.

[10] La normativa della quale in questa sede ci si occupa, dunque, determina un concorso tra fonti codicistiche e fonti subprimarie in uno dei settori per così dire "storici" del diritto civile, ossia quello della proprietà. Questo, forse, rappresenta uno dei tratti più significativi e di maggiore rilievo della materia di cui oggi si prova a dare una prima lettura, e ciò anche in considerazione del disposto dell'art. 42 Cost., il cui secondo comma prevede che "La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti".

[11] Tale prassi è stata già oggetto di critica da parte di G. Verde, L'attuazione delle leggi "Bassanini" nella regione siciliana, in Osservatorio sulle fonti 1998, a cura di U. De Siervo, Torino, 1999, 195 e ss.; L. Lorello, La potestà legislativa esclusiva della Regione Sicilia ed il limite delle norme fondamentali di riforma economico - sociale. I recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale, in Nuove autonomie, 1999, 773 ss.; da ultimo, T. Martines, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto regionale, V ed., Milano, 2000, 199 - 200, nota 48.

[12] Cfr. Corte cost. 14 dicembre 1998, n. 408, in Le regioni, 1999, 383 e ss., con nota di R. Bin, L'indirizzo e coordinamento nella "Bassanini": ritorno alla legalità, ivi, 406 e ss.

[13] Cfr. N. Lupo, La prima legge, cit., 89 ss.; E. Malfatti, Rapporti, cit., 109.

[14] Cfr. N. Lupo, La prima legge, cit., 93; G. Demuro, La delegificazione, cit., 190. Deve peraltro essere evidenziato come la Bassanini quater prevede che il governo assuma le decisioni in materia rispettando le modalità di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, coinvolgendo dunque il sistema delle conferenze. Ciò potrebbe comportare, forse, un recupero di quel rapporto collaborativo che potrebbe rendere meno centralistiche le scelte dell'esecutivo.

[15] V. in Osservatorio sulle fonti 1999, a cura di U. De Siervo, Torino, 2000, 302 e ss.

[16] Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n.490.

[17] A questo riguardo è particolarmente significativo l'art. 11, comma 1, ai sensi del quale "Nel contratto di alienazione dei beni indicati all'art. 1, l'osservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'art. 10 costituisce obbligazione principale dell'acquirente".

[18] Sull'argomento, in generale, si veda il numero 3 - 4, giugno - agosto 1998 de le Regioni, intitolato Funzioni statali, regionali e locali nell'attuazione delle legge Bassanini 59/1997. Sull'utilizzazione del termine "conferimento", per indicare l'assegnazione delle funzioni alle regioni a prescindere dallo specifico titolo giuridico in forza del quale ciò avviene, cfr. il contributo, nel volume appena citato, di G. Falcon, Il decreto 112 e il percorso istituzionale italiano, secondo il quale "L'idea è dunque che l'importante non stia nel 'titolo giuridico' di assegnazione delle funzioni (titolo al quale pure si connette, per vincolo costituzionale, un regime giuridico determinato e differenziato) ma stia nel riassegnare le funzioni pubbliche al 'giusto' livello territoriale, con la precisazione che quando due livelli territoriali appaiono ugualmente adatti senza apprezzabili differenze, il livello più vicino al cittadino dovrà essere privilegiato. Che poi si tratti di un regime di autonomia costituzionalmente garantita o di una libera scelta del legislatore statale è a questo fine indifferente".

[19] Cfr. M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 3 e ss.

[20] G. Pitruzzella, Commento all'art. 148, in AA.VV., Funzioni statali, regionali e locali, cit., 953.

[21] G. Pitruzzella, op. ult. cit., 953.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem, 956.

[24] Cfr. G. Corso, Il ministero per i beni e le attività culturali (articoli 52-54), in A. Pajno - L. Torchia (a cura di), La riforma del governo. Commento ai decreti legislativi 300 e 303 del 1999 sulla riorganizzazione della presidenza del consiglio e dei ministeri, Bologna, 2000, 375 e ss., spec. 382.

[25] Bisogna rammentare, infatti, che l'idea di fondo è quella di una preferenza per il livello più vicino ai cittadini: ciò che comporta la necessità di individuare una ragione specifica per allocare la funzione ad un livello più alto. Cfr. G. Falcon, Il decreto 112, cit., 456.

[26] Contro questo tipo di scelte si esprime G. Corso, Il ministero, cit., 383 e ss.

[27] "Fermi restando i casi di inalienabilità di cui all'art. 2, l'alienazione dei beni inseriti negli elenchi di cui all'art. 3, comma 1, come modificati dal soprintendente regionale a norma dell'art. 4, è soggetta ad autorizzazione".

[28] Art. 15, per quel che concerne l'autorizzazione a conferire in concessione o a consentire l'utilizzazione mediante convenzione.

[29] Art. 14, per quel che concerne l'autorizzazione a conferire in concessione o a consentire l'utilizzazione mediante convenzione.

[30] Ai sensi dell'art. 10, comma 1, "L'autorizzazione non può essere rilasciata qualora l'alienazione pregiudichi la conservazione, l'integrità e la fruizione pubblica del bene ovvero non sia garantita la compatibilità della destinazione d'uso del bene con il suo carattere storico e artistico".

Ai sensi dell'art. 16, comma 1, "L'autorizzazione non può essere rilasciata qualora il conferimento in concessione o l'utilizzazione mediante convenzione pregiudichi la conservazione, l'integrità e la fruizione pubblica del bene ovvero non sia garantita la compatibilità della destinazione d'uso del bene con il suo carattere storico e artistico".

[31] In caso di concessione o convenzione, l'art. 17 prevede - analogamente a quanto disposto dall'art. 11 - la revoca della prima e la risoluzione della seconda.

 



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