../1/98,%20Issn%200000-000../home../indice../risorse%20web

 

Università e tutela dei beni archeologici: prospettive di cooperazione

di Daniele Manacorda

 

Il 1998 è stato un anno importante per l'amministrazione dei beni culturali, culminato con il d.lg. 112/1998 e la nascita di un nuovo ministero.

E' tuttavia impressione comune che l'università sia rimasta in questa fase piuttosto emarginata da un dibattito nel quale avrebbe avuto qualcosa da dire, se non altro per quella sua condizione di terzietà rispetto al tema del decentramento, che forse troppo ha monopolizzato l'attenzione nei mesi passati.

I riflettori sono stati posti prevalentemente sul dilemma Stato/regioni che ha creato paure e irrigidimenti, nei quali è andato perduto il senso di un'altra operazione, che a noi stava e sta a cuore, cioè quella che la sperata riforma dell'amministrazione del settore affermasse una buona volta che la sfida della tutela in Italia non ha bisogno di steccati e paletti, ma al contrario di dare spazio e senso a tutte le competenze, e sono tante, presenti nel paese.

Il richiamo, purtroppo affrettatamente accantonato, all'art. 9 della Costituzione, che, in tema di patrimonio storico e artistico, configura un rapporto intrecciato tra i diversi livelli territoriali di governo, sembra tuttora la premessa migliore per inquadrare il tema in un'ottica positiva, per risalire la china che ha condotto a troppe conflittualità, che intralciano tanto le attività di tutela quanto quelle di promozione economica e culturale di cui il paese ha bisogno.

Per questo noi preferiamo parlare di sistema della tutela, al quale anche le istituzioni universitarie intendono partecipare concretamente manifestando la loro disponibilità ed anzi chiedendo che fra Murst e Mbac si stabilisca un rapporto più stretto di collaborazione al fine di individuare linee programmatiche congiunte fra i due ministeri. Non da ora dal mondo universitario giungono voci (penso ai i policlinici dei Bc di cui parlò anni orsono Andrea Carandini, traendo spunto da interessanti esperienze europee [1]) che chiedono momenti di incontro, anche di carattere operativo, tra università e Soprintendenze, secondo un principio di massima cooperazione, che tenga ferma la piena distinzione di funzioni e responsabilità, dal momento che la confusione istituzionale e normativa non conviene a nessuno e meno che mai al nostro patrimonio culturale.

Potrà certo sembrare ovvio che negli articoli del 112 che riguardano i beni culturali l'università sia citata solo episodicamente. Non questo ci preoccupa, quanto piuttosto il fatto che in quel testo non si individui mai nel Murst un interlocutore privilegiato con il quale sia prioritario un rapporto da affidare ad un corposo accordo - quadro. L'università è rimasta alla finestra anche perché le discussioni di questi ultimi mesi hanno lasciato nell'ombra un punto davvero centrale del dibattito, che riguarda l'aggiornamento del concetto di tutela e delle forme della sua applicazione, del quale invece l'università, per la funzione culturale che svolge nel paese, si sente pienamente investita.

Eppure attorno al tema della tutela si aggrovigliano tre nodi, che dobbiamo tutti insieme provare a sciogliere: il nodo amministrativo della tutela preventiva, il nodo operativo di una tutela finalmente intesa come servizio, il nodo culturale dell'unità del patrimonio, che consenta all'esercizio della tutela di uscire dalla concezione accademica insita nelle sue più antiche formulazioni.

Un confronto tra la prima e la seconda bozza del decreto istitutivo del nuovo ministero per i Beni e le Attività culturali indica in modo sconsolante il processo involutivo che ha peggiorato in itinere l'articolato.

Infatti, non solo è stato soppresso quel comma importante che tra le funzioni delle nuove Soprintendenze regionali indicava le attività di studio e ricerca da svolgersi "anche in collaborazione con le università e gli enti pubblici di ricerca". Ma sono le stesse Soprintendenze regionali che si sono perse per strada e che invece rappresentavano una corposa e positiva novità. Al loro posto un Soprintendente regionale, coordinatore di momenti solo formali, la cui istituzione lascia intatta quella concezione arcaica dell'amministrazione compartimentale della tutela, cioè cronologico - disciplinare, che ci viene riproposta, cristallizzando uno status quo largamente inefficace, che avrebbe avuto bisogno di ben altre dosi di innovazione politica e istituzionale.

In realtà, con la Soprintendenza regionale viene accantonata quella Soprintendenza unica, che continua ad essere oggetto di "una rimozione collettiva" [2], che non vuol vedere quanto il modello vigente di tutela sia "un coacervo di clamorosi anacronismi, fattore di impaccio e quindi, indirettamente, di danno per la reale salvaguardia dei beni culturali", mentre è tutta la cultura del Novecento che ci insegna che il territorio da tutelare è per definizione unitario.

D'altra parte, l'impalcatura delle competenze separate (archeologia e arte antica, arte medievale e moderna, architettura) era incongrua già all'epoca in cui si andarono definendo le Soprintendenze disciplinari quali oggi le conosciamo", che sono una assurda ricaduta di carattere accademico sulle forme dell'organizzazione amministrativa.

Sulla Soprintendenza unica non c'è uniformità di vedute. Se quella scelta in Sicilia non ha funzionato, mi permetterei di far notare che un principio buono può essere anche male attuato, un principio cattivo non può essere attuato bene. Si rifletta piuttosto sul fatto che, se il vero problema sono i rapporti di forza interni fra funzionari archeologi e storici dell'arte e funzionari architetti, se ne prenda atto ma si cerchi al tempo stesso di trovare una soluzione possibile.

Ma la tutela territoriale, nel momento stesso in cui deve necessariamente salvaguardare le competenze specifiche nei singoli tematismi, deve anche garantire quella unità metodologica e amministrativa delle procedure, della cui mancanza lo stesso ministro Veltroni ha dovuto dare atto in un suo recente intervento alla Bicameralina [3]. Sul tema della Soprintendenza unica si misura davvero la capacità di uno Stato (e di un parlamento) di esprimere cultura nella organizzazione delle forme che esso dà alla sua amministrazione.

Per strada si è persa anche quella "autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile" che veniva finalmente riconosciuta alla Soprintendenza regionale: un'autonomia (non una inutile autarchia), in favore della quale anche l'Università vorrebbe adoperarsi. Né sembra sufficiente l'ultima redazione dell'articolo relativo alle Soprintendenze e gestioni autonome, che confusamente sostituisce il testo precedente, che sottolineava almeno il loro valore contestuale ("insediamenti urbani o complessi di beni... caratterizzati da particolare omogeneità e rilevante valore..."), con formulazioni culturalmente più deboli ("presenza di complessi distinti da eccezionale valore") che lasciano tutto nel vago.

Il nodo della prevenzione è un passaggio fondamentale per uscire dalle strette di una concezione prevalentemente repressiva della tutela, perché implica la volontà politica e la capacità tecnica di programmare le priorità di conoscenza del patrimonio a rischio. Ciò significa far valere nelle diverse sedi le ragioni della cultura, che non sono affatto ovvie, confrontarsi con gli altri poteri, concorrere a governare il territorio, sì che la tutela diventi uno dei cardini della politica urbanistica.

Non si tratta certo di indebolire gli strumenti, anche rigidi, della tutela, ma di esprimere quelle capacità progettuali che possono contribuire a liberare l'esercizio della tutela dall'ambito della pur necessaria repressione: per esercitare la tutela avulsa dal progetto non servono infatti strumenti particolari, basta la legge e una conoscenza puntiforme e non diffusa de beni e del territorio.

D'altra parte, solo da una concezione della tutela intesa e praticata come servizio può nascere una linea di politica culturale capace di ammodernare la macchina della pubblica amministrazione e di dotarla di quegli strumenti operativi fondamentali di cui lo Stato unitario in oltre 120 anni non è ancora riuscito a dotarsi: non c'è servizio se non c'è carta archeologica, catasto dei beni, intima combinazione delle esigenze della tutela con le altre scienze del territorio. Ma dove e da chi sono state redatte le cartografie archeologiche? quanti archivi sono stati informatizzati? Le esperienze, pur positive, messe in atto in alcuni uffici non rappresentano una prassi in via di consolidamento, non interpretano ancora una linea di governo. Nella loro stragrande maggioranza i dati sono frammentati, non comunicati e spesso non comunicabili: una situazione premoderna.

Il sistema della tutela si esprime dunque anche, a nostro parere, nel ruolo evidente che l'insieme delle competenze del paese, e quindi anche l'università e il Murst, possono assumere in favore di una tutela preventiva, che prenda le mosse dalla conoscenza sistematica del territorio. E' più di un secolo che ci dibattiamo attorno al problema della cartografia archeologica nazionale senza che questo sia mai diventato davvero un tema di governo e si sia messo in campo un grande progetto pluriennale per la produzione di cartografie archeologiche, cui chiamare a collaborare con obiettivi e procedure comuni enti di ricerca italiani e stranieri.

Si tratta certo di programmare le priorità (aree urbane, periurbane e costiere, aree soggette a grandi infrastrutture) d'intesa anche con gli uffici regionali preposti all'urbanistica: un'impresa non facile e di lungo respiro, ma non irrealistica. Certamente innovativa. Gli archeologi che operano nelle università sono testimoni delle difficoltà che i funzionari statali della tutela affrontano, con retribuzioni inadeguate, in uffici privi del personale adeguato e delle strumentazioni necessarie, oberati spesso da procedure e pastoie burocratiche. Conoscono anche la ricchezza delle esperienze di valorizzazione dei beni culturali maturate in molte amministrazioni locali, spesso anche in contrasto con una macchina statale che mostra scarsa attenzione verso le istituzioni pubbliche altre da sé che operano qualificatamente nello stesso settore.

Possono cionondimeno tentare di far emergere alcune ipotesi che potrebbero essere auspicabilmente condivise in tema di formazione, di ricerca, di politica generale della tutela e della valorizzazione del patrimonio. Il tema della formazione ha spesso diviso i due campi. Improvvide affermazioni di autarchia formativa da parte del Mbc non hanno del resto aiutato la discussione nel recente passato. E invece è urgente un tavolo comune tra i due ministeri per discutere nel concreto i contenuti della formazione degli operatori della tutela, il profilo delle figure professionali che servono all'amministrazione, per svecchiare le attuali rinnovando al tempo stesso gli ordinamenti didattici universitari.

Le scuole di specializzazione universitarie formano anche i futuri funzionari della tutela, cioè il personale direttivo che dovrebbe poter dominare la disciplina, certo nelle sue partizioni storico-culturali, ma innanzitutto nei suoi aspetti unificanti, cioè nei suoi metodi, che soli danno la garanzia di un approccio qualificato ed equilibrato ai palinsesti territoriali, e che offrono gli strumenti per far fronte alle difficoltà, spesso titaniche, imposte, ad esempio, dai cantieri delle grandi infrastrutture urbane ed extraurbane o dalle complessità degli interventi di restauro dell'edilizia storica. A tal proposito, è urgente inserire nel profilo professionale degli architetti dei ruoli della tutela anche le conoscenze basilari delle metodologie archeologiche di intervento sul manufatto architettonico visto che non da ora fioriscono studi, convegni e riviste di archeologia dell'architettura.

Nel quadro di un accordo di programma tra i due ministeri dovrebbe essere anche esplicitamente favorito un sostegno alle attività di tirocinio degli studenti universitari anche presso i musei e le Soprintendenze statali e facilitato l'accesso ai materiali per la redazione di tesi di laurea e di specializzazione. Al tempo stesso l'esperienza dei funzionari della tutela dovrebbe essere messa meglio a frutto nella didattica universitaria, superando in sede di accordo - quadro e di contratto nazionale gli ostacoli che ancora si frappongono oggi ai funzionari invitati a svolgere lezioni o seminari nelle università.

L'università ha infatti bisogno anche del patrimonio di competenze presenti negli uffici della tutela e sente l'esigenza di ritrovare un terreno di incontro comune per quella osmosi università/soprintendenze, specie ai livelli direttivi, che era una prerogativa del vecchio Stato unitario e che è stata spazzata via dalla lontane riforme, che - sono parole di Andrea Emiliani - trasformarono la figura del Soprintendente da uomo di cultura in prefetto [4].

L'esclusione dei professori universitari dalle commissioni di concorso per funzionari recentemente conclusosi non andava certo in questa direzione. Ma non è tanto questo che ci interessa: non è un fatto di corporazioni, quanto un problema di sostanza: formare chi e come per fare che cosa? Se nei futuri concorsi per funzionario archeologo nell'amministrazione della tutela si modificheranno i criteri che sono alla base della selezione, potremo sperare di avere un nuovo tipo di funzionario che andrà a svolgere domani sul campo quei ruoli ai quali sarà stato effettivamente formato dalle università e per i quali sarà stato valutato all'atto del concorso.

Nella nostra amministrazione della tutela c'è una persistente eredità accademica, che ha radici storiche e che si manifesta tanto nei criteri di valutazione delle figure professionali quanto nell' ostilità verso forme di tutela unificata: e invece tanto più la tutela saprà staccarsi dall'accademia tanto maggiore sarà il reciproco vantaggio.

Se le Soprintendenze fossero intese e gestite anche come industrie di conoscenza e promozione culturale, i loro funzionari dovrebbero venire selezionati e valutati innanzitutto per la loro cultura, che è anche capacità manageriale, capacità di intuire i problemi e risolverli attivando le competenze necessarie per produrre il "prodotto tutela". C'è molto da fare in questo campo, ad esempio anche attivando una convenzione murst-mbac per la promozione di stages di aggiornamento per i funzionari della tutela e delle amministrazioni locali su temi metodologici e storico - culturali mirati alla lettura e alla valorizzazione del patrimonio archeologico che consentirebbe scambi di idee, passaggi di informazioni, forme di osmosi concrete.

Conoscere per tutelare significa non tanto o non solo fare ricerca, ma saper far fare ricerca a quanti ne hanno titolo, promuovere indagini su temi territoriali o specifici, essere il management delle forme in cui si acquisisce il nuovo sapere in funzione della tutela e della valorizzazione. La valutazione di una Soprintendenza in termini di efficienza e produttività dovrebbe tenere conto non solo delle ricerche da essa effettuate, ma anche di quelle di cui ha promosso la pubblicazione attivando altri enti di ricerca in attività territoriali e museali. Ragionando in questi termini la stessa mobilità verticale dei funzionari potrebbe essere correlata alla capacità di attivare competenze e suscitare iniziative di ricerca.

Anche nel nostro settore soffriamo di quella distorsione culturale recentemente lamentata nel mondo degli archivi, che ha portato il personale a privilegiare le attività di ricerca storica e di valorizzazione del materiale conservato negli archivi di Stato piuttosto che il lavoro più oscuro e meno gratificante ma non per questo meno "valorizzante" del rapporto con gli archivi della pubblica amministrazione [5]: noi diremmo al lavoro, fondamentale e altamente qualificato, della promozione delle attività di ricerca finalizzate alla tutela.

Mario Torelli ha ancora recentemente denunciato l'esistenza di decine di migliaia di cassette stivate in magazzini di ogni genere, contenenti milioni di cocci, praticamente perduti per la scienza [6]. Esiste oggi una immensa risorsa culturale improduttiva, ma costosa per la collettività, di fronte alla quale non si può restare immobili: potremmo pensare ad un obiettivo, ambizioso forse, ma non irrealistico, che - con termine di moda - si potrebbe definire di "rottamazione dei depositi", che offra incentivi alle soprintendenze e sostegno agli istituti di ricerca per un progetto finalizzato alla pubblicazione del patrimonio inedito giacente nei depositi, che contribuisca a far sentire Uffici della tutela e centri di ricerca universitari solidarmente impegnati nel raggiungimento di un obiettivo comune.

Lo spirito costruttivo di tale proposta può servire anche ad affrontare in una luce diversa un tema assai delicato, che è da sempre al centro del contenzioso tra l'università e l'amministrazione statale della tutela: il tema della libertà della ricerca.

Nonostante la presenza di norme e circolari ministeriali l'obiettivo di una liberalizzazione generalizzata dei materiali e della documentazione relativa a vecchi scavi depositata presso musei e soprintendenze è ancora lungi dall'essere raggiunto. Lo stesso si dica per l'auspicata liberalizzazione degli accessi agli archivi storici delle soprintendenze, che sono archivi pubblici.

Ma il tema è più vasto e coinvolge non solo la gestione dei beni mobili, ma anche le attività sul campo, e quindi il nodo ricerca/tutela, certo non facilitato da quella anomala commistione fra funzione operativa e di controllo, concentrata nelle mani di un unico soggetto istituzionale, che caratterizza l'attuale quadro normativo e che non trova riscontro in settori altrettanto delicati della pubblica amministrazione.

Il principio della libertà della ricerca scientifica, sanzionato dalla Costituzione, dalle leggi, dai regolamenti e dalle circolari ministeriali, ha tuttavia sempre trovato e tuttora trova - è stato scritto di recente - sorde e sotterranee resistenze nelle Soprintendenze [7].

Sono parole severe, che potrebbero purtroppo anche essere rivolte a diffusi settori del mondo universitario, per quanto riguarda il modo in cui si interpreta a volte la funzione didattica verso gli studenti. Dipende, come sempre, dalla qualità delle persone. Ma nel caso della pubblica amministrazione è davvero intollerabile che l'osservanza delle regole sia così strettamente connessa alla cultura o alla psicologia dei funzionari che dirigono gli uffici, i cui comportamenti da ufficio ad ufficio variano nella forma e nella sostanza in termini tali da mettere in dubbio l'esistenza di uno stato di diritto.

Vuol dire che davvero qualcosa non va, e per questo sarebbe preferibile che il principio e la pratica della libertà di ricerca trovassero ulteriori sponde sul versante legislativo, ad esempio introducendo come emendamento all'art. 148, comma 1, lettera c) del d.lg. 112/1998 quanto era scritto nell'art. 2 del documento della Commissione Cammelli, che, definite le funzioni della tutela, concludeva opportunamente asserendo che le limitazioni adottate non devono precludere l'esercizio effettivo della libertà di ricerca scientifica.

L'articolo 148 del 112/1998 definisce la tutela come "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali". Potremmo discutere legittimamente se in quella definizione sia implicitamente inclusa quella particolare attività di conoscenza che è lo scavo archeologico, o se questa non debba piuttosto essere riconosciuta nel concetto di valorizzazione, espresso nel medesimo articolo, cioè non come un atto riconoscitivo, ma come un valore aggiunto, diretto a migliorare le condizioni di conoscenza.

Non è una distinzione di piccolo momento, perché viene a toccare nel vivo alcune procedure consolidate, che traggono la loro origine in una concezione patrimoniale della tutela, che affonda le sue radici nel chirografo del 1802 e nell'Editto Pacca, per poi manifestarsi in quella concezione proprietaria del bene stesso che è ancora troppo diffusa nella mentalità e nella prassi di troppi uffici.

Su questo tema occorre davvero un ribaltamento di mentalità e di procedure, che spalanchi le porte del patrimonio pubblico, interpretando la pubblicità dei beni quale essenziale premessa giuridica della loro necessità di essere resi pubblici. Si tratta di garantire davvero diritti elementari, come il diritto alla riproduzione fotografica dei beni di proprietà dello Stato, ancora una volta ribadito da una recente sentenza della Cassazione [8], e di rendere inattuali quelle circolari che, senza far riferimento ad alcuna disposizione di legge, rammentano alle ditte esecutrici di restauri che è vietato divulgare notizie o pubblicizzare materiale attinente ai lavori affidati, senza la preventiva autorizzazione [9].

L'ottica va proprio ribaltata: le attività di restauro - esattamente come quelle di scavo - sono momenti conoscitivi fondamentali e irripetibili, che nessun ufficio ha il diritto di occultare, mentre ha il preciso dovere di darne massima informazione. Per questo occorre che sia meglio garantito il principio di libero accesso degli studiosi ai cantieri di restauro e di scavo gestiti dal Mbac, fatti salvi documentati e verificabili impedimenti connessi alla sicurezza del lavoro.

Nessuna giusta normativa, che ha come scopo di garantire la sicurezza sui cantieri, né tanto meno la tutela della proprietà scientifica in capo alla direzione - lavori, può essere infatti utilizzata a detrimento della circolazione delle conoscenze sui beni di proprietà dello Stato.

A questo proposito, la messa a disposizione in archivio dei dati può diventare uno strumento formidabile di comunicazione del sapere che lo sviluppo delle reti telematiche può rendere globale. Se il nostro ministero dei Beni culturali, invece di chiedere cifre inutilmente esose per pubblicare le fotografie dei reperti di proprietà dello Stato, mirasse a creare ricchezza grazie alla produttività economica della circolazione delle informazioni sarebbe possibile mettere a disposizione attraverso la rete, anche a pagamento, le informazioni relative al patrimonio schedato dall'Iccd, fatte salve le precauzioni (ad esempio tramite chiave d'accesso) necessarie per particolari complessi di beni a rischio. Non sarebbe un modo più proficuo di praticare la tutela e la valorizzazione dei beni rendendo davvero pubblico il patrimonio? E se altrettanto facessero i musei locali e diocesani, le università e gli altri enti di ricerca? Davvero, i termini in cui oggi poniamo il problema ci apparirebbero d'un tratto obsoleti.

D'altra parte il titolo proprietario da parte dello Stato non giustifica certo la limitazione alla circolazione delle informazioni, la cui funzione sociale è stata di recente affermata proprio nel d.lg. 112/1998. Si tratta semmai di riconoscere esplicitamente nelle autonomie funzionali, di cui si fa cenno al comma 2 dell' art. 6 del d.lg. 112/1998, anche il sistema universitario. La tutela non sia dunque intesa come occultamento e sottrazione, la mano pubblica 'renda pubblico' un patrimonio che è di tutti, lo Stato non si comporti come un privato verso i suoi cittadini e tanto meno verso le altre istituzioni pubbliche.

Il contenzioso sulla libertà di ricerca è davvero dannoso: avvelena l'aria, allontana istituzioni che avrebbero mille occasioni e necessità di cooperazione e di incontro. A tal fine potrebbe essere utile procedere ad una valutazione del grado di applicazione di leggi, regolamenti e circolari già esistenti in materia per poi eventualmente stendere un codice deontologico, che orienti i comportamenti di chi è insignito di funzioni amministrative connesse con il patrimonio culturale del Paese, nello spirito di quanto già avviene in campo archivistico, dove si discute di una etica dell'accesso, anche e specialmente nel caso in cui l'archivista sia contemporaneamente utente dell'archivio [10]. Tanto più si svilupperà la libertà della ricerca, tanto più arretrerà la concezione patrimoniale della tutela, tanto più guadagnerà terreno un sistema della tutela, che consideri anche i centri universitari attori responsabilizzati e compartecipi di un grande progetto di conoscenza, salvaguardia e valorizzazione dei nostri beni culturali.

In qualche forma occorrerà tuttavia anche metter mano all'istituto della concessione, cominciando, perché no? dal nome stesso, che potrebbe esser sostituito da dizioni, quali "delega" o altre, che superino la concezione preliberale del rapporto Stato - società civile storicamente connessa al termine anacronistico di "concessione".

Occorrerà insomma trovare forme di accreditamento delle università presso il Mbac o comunque di riconoscimento del loro ruolo scientifico nelle indagini archeologiche sul terreno e in laboratorio, eventualmente (lo strumento andrà valutato con attenzione) mediante la stesura di convenzioni-quadro Murst- Mbac per l'esecuzione di scavi che abbattano le procedure burocratiche centralistiche che oggi condizionano i ritmi degli interventi e che prevedano al tempo stesso l'assunzione non solo delle responsabilità scientifiche, ma anche di parte degli oneri eventualmente derivanti(restauro, ricopertura, recinzioni, custodia).

Anche questo per noi è il sistema della tutela. Il decentramento presso gli uffici periferici della gestione riformata della "concessione" aiuterebbe anche una riflessione sui nuovi Comitati tecnico-scientifici del ministero e sul nuovo Consiglio, un organismo certamente meno pletorico, ma anche meno rappresentativo del vecchio Consiglio Nazionale, più snello, ma più verticistico e con indebite presenze di tipo "sindacale" (sarebbe bene che il ministro scelga i suoi membri almeno su rose proposte dal mondo della cultura).

In sede di stesura dei regolamenti sarebbe pertanto auspicabile che i nuovi Comitati tecnico-scientifici siano individuati, a differenza degli attuali Comitati di settore, quali organi titolari di poteri effettivi di consulenza e indirizzo nella programmazione degli interventi, nell'unificazione metodologica e amministrativa delle procedure e nell'analisi dei contenziosi, grazie anche allo loro natura di organi elettivi e quindi fortemente rappresentativi.

Un problema di rappresentatività si manifesta anche per le nuove conferenze regionali previste dal d.lg. 112/1998. Il regolamento di attuazione dell'art. 154, comma 1, lett. b), del d.lg. 112/1998 potrebbe esplicitare la elettività dei rappresentanti universitari su base regionale, mentre resta aperto il problema di favorire una maggiore presenza delle Università nelle nuove Commissioni previste dall'art. 154 del d.lg. 112/1998 elevandone il numero dei rappresentanti.

Non sfugge l'importanza di queste nuove strutture che, se non saranno relegate al ruolo fallimentare dei vecchi Comitati paritetici, potranno essere investite di funzioni reali di coordinamento, programmazione e controllo, anche per quanto riguarda la vigilanza sulla valutazione dei requisiti dei soggetti esecutori di interventi archeologici pubblici e sulla trasparenza degli affidamenti

C'è quindi molto da fare in sede legislativa, per proporre emendamenti di revisione del d.lg. 112/1998, in sede di stesura dei regolamenti, di circolari, di accordi e convenzioni - quadro tra i due ministeri. Quale occasione migliore per dare visibilità alle discussioni che si sono intrecciate in tutti questi anni, ed il cui frutto è costituito - come osservava recentemente Pier Giovanni Guzzo [11] - da un sentire comune sì, ma da una ancora accentuata divisione istituzionale ed operativa?

Occorre moltiplicare le occasioni di confronto e di incontro, lanciando segnali concreti di reciproca considerazione [12], cooperando anche alla organizzazione di incontri periodici congiunti Murst-Mbac in sede regionale o nazionale per la divulgazione dei risultati ottenuti nel corso di ricerche archeologiche sostenute da finanziamenti pubblici. Questi incontri, lungi dall'essere o inutili o irrealizzabili, sarebbero il segno di una raggiunta normalità.

Ma non dobbiamo nasconderci che persiste tuttora una difficoltà al confronto, un timore - si direbbe quasi - del reciproco giudizio. Due nuovi grandi musei archeologici sono stati recentemente allestiti a Torino e addirittura a Roma: solo i media hanno occupato come hanno potuto gli spazi lasciati vuoti dalla nostra incapacità di offrire un commento, aprire una discussione su queste grandi iniziative culturali che - quale che sia il giudizio di merito - investono direttamente aspetti delicatissimi della nostra disciplina e della sua immagine esterna.

Davvero a volte c'è da essere preoccupati della nostra afasia. Chi opera nelle strutture universitarie non pretende di esercitare alcuna egemonia; al contrario, l'università deve mettere in discussione se stessa, come qui abbiamo cercato di fare, evitando i rischi dell'accademismo, cioè la chiusura in consorterie disciplinari, le gelosie, l'identificazione degli interessi generali nei propri interessi particolari, la difficoltà a collocare la propria attività e i propri valori nel più ampio contesto culturale e politico.

L'accademismo è la nostra malattia. E' una malattia grave del sistema culturale italiano, che purtroppo ha da tempo contagiato anche l'amministrazione statale della tutela. Ci auguriamo che il prossimo futuro possa veder calare il contenzioso tra le diverse istituzioni, e che uno Stato più leggero, ma più forte, dotato di funzioni delicate ed altissime, possa riqualificare il suo ruolo nazionale, dettando le regole del gioco e controllandone l'osservazione, chiamando tutte le competenze disponibili a partecipare a quel sistema della tutela, di cui l'università si sente componente organica e naturale per il suo ruolo insostituibile nella ricerca e nella formazione applicata ai Beni culturali.

 



Note

[1] A.Carandini, La formazione degli archeologi, nel rapporto tra mondo universitario e Ministero BB.CC., in La laurea non fa l'archeologo, Tavola rotonda (Roma, 8 maggio 1992), Mantova 1993, 105-107.

[2] Cito da C.Pavolini, Per una Soprintendenza unica, in Ostraka, V, 2, 1996, 377-387

[3] Commissione Parlamentare consultiva in ordine all'attuazione della riforma amministrativa ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59, seduta del 24 settembre 1998.

[4] A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino 1974, 99-100

[5] L. Giuva, Gestione dei documenti, efficienza e trasparenza amministrativa, trasmissione della memoria, in Gli archivi pubblici nella società dell'informazione, Annali dell'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, 5, 1998, 31-32.

[6] M.Torelli, Editoria periodica italiana di archeologia: un tentativo di bilancio, in La pubblicazione delle scoperte archeologiche in Italia (Accademia dei Lincei, 11 dicembre 1997), Roma 1998, 106.

[7] F. Costabile, Il problema giuridico e amministrativo della priorità delle scoperte archeologiche. Libertà di ricerca e riserva di pubblicazione, ibidem, 113.

[8] Ibidem, 112.

[9] Cito da un documento emesso da un'importante Soprintendenza Archeologica nell'estate del 1998, esemplificativo di un costume diffuso: in questo caso è data per iscritto un'indicazione altre volte suggerita per via orale.

[10] M.Giannetto, Archivi negati? Tutela della privacy, consultabilità dei documenti d'archivio e diritto alla ricerca storica, in Le carte e la storia, IV, 1, 1998, 13.

[11] P.G.Guzzo, L'evoluzione dei metodi e delle strutture culturali nella ricerca archeologica italiana, in La pubblicazione delle scoperte archeologiche in Italia, cit., 118.

[12] Sostenendo, ad esempio, la richiesta di un riconoscimento anche per i funzionari della tutela del diritto al godimento periodico di un anno sabbatico a fine di ricerca analogamente a quanto già riconosciuto per i docenti universitari (cfr. in proposito A. Di Vita, P. Orlandini, G. Rizza e M. Torelli, ibidem, 120, 123-124, 128).


copyright 1999 by Società editrice il Mulino


inizio pagina